Dappertutto dappertutto

La mia collega la riconosco dal passo.

Deciso, scandito, rapido, senza incertezze, senza dubbi, senza strascicamenti.

Lei ha lo stesso incedere quando viene a salutarmi, e quando si muove per le incombenze di lavoro. Oggi però la sento arrivare con cadenza perentoria. Non posso non intuire che devo togliermi gli occhiali e prepararmi.

“Anna, credo di avere l’Alzheimer!”

Indubbiamente perentorio.

Ci confrontiamo rapidamente e conveniamo su alcune questioni salienti: quando devi riordinare sempre le solite quindici camere, alla fine i gesti si fanno meccanici, e l’attenzione scivola sulle cose normali, e riprende vigore su quelle fuori posto. È normale.

“Allora: in quella camera lì, c’è o non c’è mai stato lo scaffaletto in bagno?”

Mi dice che le viene da dire che c’era, e che sistemarci sopra i kit di accoglienza era diventato un gesto meccanico.

“Oggi non sapevo dove metterle, tutte quelle cose, perché lo scaffale non c’è.”

Conveniamo: se non sapeva dove metterle, vuol dire che “il solito posto” non c’era.

“E allora lo scaffale che di solito c’era, dov’è?”

Ospitiamo un gruppo di ragazzi, la qual cosa è di solito foriera di qualche guaio, di disattenzioni, di schiamazzi, di inconvenienti. Questo gruppo però no: questi sono ragazzetti tranquilli, silenziosi, educati. Ragazzi a modo, si dice.

Ospitiamo un gruppo di ragazzi, e se non viene spontaneo pensare che abbiano utilizzato lo scaffaletto per accendere un falò notturno, allora bisogna che troviamo lo scaffale per scongiurare l’autodiagnosi di Alzheimer della mia collega.

Dai, vedrai che lo troviamo. è così seria da sembrare quasi preoccupata.

“L’ho cercato ovunque. Ho guardato in tutte le camere, ho pensato che potevano esserselo scambiato con qualcun altro. Cose come uno scaffale in cambio di un piumino.”

Scuoto la testa: improbabile.

“Ho pensato anche di averlo portato fuori io, e di averlo fatto finire … non so … sul camion della lavanderia, magari?”

Scuoto la testa: veramente improbabile.

“Ho pensato che magari lì lo scaffale non c’è mai stato, e io magari appoggiavo le mie cose … non so … sul lavandino?”

Scuoto la testa e poi la riscuoto.

“Ma io ho guardato dappertutto! Proprio dappertutto e più volte!”

Scuoto … vabbè, si sa.

Facciamo così: adesso mando un messaggio al responsabile del gruppo, e vedo di capire se ha notizie dello scaffale rapito.

Io chiedo al responsabile, lui chiede ai suoi collaboratori, questi chiedono ai ragazzi, che si scrutano reciprocamente.

E io li vedo: i Ragazzi A Modo vorrebbero non averlo fatto.

Quasi faticano a raccontarlo ai loro responsabili.

Stanno in piedi con lo sguardo basso, e quelli bravi a leggere il linguaggio del corpo direbbero che è l’atteggiamento di quelli che hanno combinato un malanno, e che speravano di non doverne rendere conto.

Mi viene quasi da rincuorarli: vabbè, avrete anche dato fuoco allo scaffale, ma almeno adesso ce lo raccontate, e così scongiuriamo l’infausta autodiagnosi della collega. Niente Alzheimer, se scopriamo che lo scaffaletto c’era e che poi invece …..

Invece?

Uno si fa coraggio: “Le mie magliette erano molto in disordine. Sono abituato a tenerle in ordine in un cassetto, ma qui il cassetto non c’era ….”

E quindi?

E quindi ha messo lo scaffale dentro all’armadio, per tenere in ordine le sue magliette.

Sono sbalordita.

Il Ragazzo A Modo si scusa. Dice che rimetterà a posto lo scaffale.

E invece dovrei scusarmi io.

Per non avergli fornito un cassetto, per avere pensato che avesse dato fuoco allo scaffale, per avere creduto che non avrebbe mai debellato l’Alzheimer della mia collega. E dovrei scusarmi anche perché da cinque minuti buoni lo guardo con la faccia appesa.

Mi scuoto come per svegliarmi, e so che lo scaffale starà nell’armadio fino a quando il gruppo partirà.

E noi intanto ci prepareremo a un altro gruppo, ad altre soluzioni creative e fantasiose, ad altre autodiagnosi, con la rinnovata consapevolezza che quando si dice “ho guardato dappertutto”, in fondo c’è sempre un posticino che non abbiamo ispezionato.

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